Musica e montagna, un accostamento che può apparire ardito tra due mondi pieni di fascino che sembrano non immediatamente adattabili l’uno all’altro. In effetti anche per gli incontri di Musica sulle Apuane l’accostamento di musica e montagna mi è apparso in un primo momento, leggendo il programma, per certi aspetti, forzato, quasi innaturale in primo luogo per le difficoltà tecniche del fare musica in un luogo acusticamente non adatto, ma non solo. È facile cedere alla rappresentazione tradizionale, soprattutto per la musica classica, che vede la musica esigente in termini di raccoglimento e isolamento e la montagna che invece spinge ad aprirsi all’esterno, a ciò che ci circonda, alla dispersione dello sguardo che porta con sé il divagare della mente. A riprova che tale rappresentazione è soltanto una tra quelle possibili, ho percepito l’atmosfera che si è creata durante gli arditi incontri così come sono stati realizzati nel corso della rassegna Musica sulle Apuane, almeno per quanto riguarda i quattro o cinque cui ho assistito, come un’atmosfera in grado di creare un particolare fascino non solo per i paesaggi che si sono mostrati davanti agli occhi e per i suoni e le voci degli strumenti che hanno sollecitato gli orecchi, ma un fascino derivato dal contesto particolare in cui ciascun incontro è stato calato, un contesto che ha dato vita ad una strana aria di famiglia, di festa paesana nel senso positivo del termine, di festa in cui ci si sente partecipi, soggetti e non oggetti da spremere con improbabili ma efficaci lusinghe.
Certo l’idea della festa paesana è qualcosa di estremamente lontano dall’atmosfera della sala da concerto dove anche il più piccolo rumore, se si eccettuano le atmosfere create dai silenzi di John Cage per il quale i rumori della sala di fronte al silenzio dell’esecutore sono materiale per la produzione di una sorta di del ready-made musicale ispirato con lo scopo esplicito di rendere il pubblico il vero esecutore di una composizione non composta, costituisce un ostacolo all’ascolto. Nonostante l’aria della festa paesana la musica suonata rimane al centro della scena, una scena che però si costruisce insieme all’ambiente e agli ascoltatori, una scena in grado di produrre anche qualcosa di nuovo e di innovatore. Si è infatti respirato anche una impercettibile aria rivoluzionaria, legata alla percezione di una sorta di demolizione del piedistallo su cui una certa musica, soprattutto quella classica, talvolta cerca di innalzarsi, un piedistallo fatto di addobbi, abiti da sera, di cerimonie, di riti ripetitivi e ripetuti che niente hanno a che fare con la musica suonata ma che sono in grado di scavare solchi profondi e di erigere muri pur di avvicinare lo spettacolo al sacro, all’inviolabile, un’aria di famiglia che è lontana dall’esproprio che una volta avremmo chiamato “proletario”, in quanto non è necessario demonizzare il sacro (si può ammirarne il fascino con l’occhio rivolto però a ciò che sta dietro le quinte e quindi renderlo non un muro ma una risorsa), un’aria che somiglia a quella del camerino dove l’attore si libera della maschera e si mostra per quello che è e la musica si rivela il prodotto creativo di esseri umani che ha bisogno per “esistere” di altri esseri umani che ascoltano e di esseri umani che si sporcano le mani utilizzando strumenti a loro volta realizzati da altri esseri umani, o di voci affinate da un lungo periodo di studio e di esercizi, una catena infinita in cui non c’è posto per strane presenze come quella dello “spirito” o del “genio” di romantica memoria, anche se non può escludersi una più umile genialità intesa come capacità creativa e innovativa, padronanza di grammatiche, linguaggi, tecniche. In fondo il rivoluzionario per il musicista può esprimersi anche mediante il semplice far musica. Non occorrono proclami, non occorre schierarsi a favore o contro, non occorre scegliere un particolare contenuto, forse è sufficiente suonare la musica in un certo contesto e con un certo spirito.
In qualche caso la musica tende a presentarsi come evasione, come un periodo di ferie nei confronti della realtà, una musica che, sulla scia delle idee dei sofisti o di Democrito, riprese da una parte dell’estetica contemporanea ma soprattutto dalla pressione consumistica ed edulcorante della società contemporanea ben descritta da Adorno, una musica che ha lo scopo esclusivo di divertire, che sembra avere un valore esclusivamente edonistico, un prodotto del sovrappiù autonomo rispetto sia all’utile e che all’etico. Per gli incontri cui ho assistito non si può parlare di vacanza dalla realtà, di fuga dall’impegno nei confronti del politico e soprattutto dell’ambiente inteso come luogo dove si svolge la nostra vita. Per la montagna è difficile che questo distacco possa in qualche modo rappresentare un filo conduttore. Anche una semplice passeggiata in montagna pone davanti agli occhi i problemi del luogo in cui ci muoviamo e viviamo, del complesso rapporto tra uomo e natura in una società tecnologica, la necessità di tenere insieme il dilettevole e l’impegno etico. Per la musica invece tale immediatezza non è scontata. Per secoli si è pensato, seguendo Pitagora, che la musica fosse lo strumento attraverso il quale si rivela l’armonia del mondo, avendo in mente però non la musica suonata dei musicisti ma la musica non udibile dei filosofi, delle sfere celesti o addirittura la potenza creatrice di Dio. Oppure, seguendo Platone, che la musica abbia in sé un fine pedagogico e quindi che debba essere soggetta a censure al fine di escludere la musica ritenuta dannosa per la sacralità dell’essere umano concepito però come essere parziale o come essere imperfetto bisognoso di una guida spirituale. Oggi forse prevale però un altro atteggiamento a su volta portatore di ambiguità, un atteggiamento che potremmo definire di disincanto, di scoperta dell’autonomia della musica sia dalla funzione conoscitiva (la musica non è portatrice di alcun significato) sia dalla dimensione etica (la musica non è legata a valori e quindi non può avere una funzione pedagogica). Da Hanslick a Stravinskij l’immagine della musica è stata quella di un’arte a sé, basata soltanto sulla forma, sui rapporti interni del suono, sull’organizzazione temporale e tuttalpiù sugli effetti di tali elementi sul nostro apparato sensitivo – percettivo ed estetico. A dir il vero però tale purismo della forma trova già qualche resistenza nel fatto che talvolta la musica assume un valore diverso da quello formale, basti pensare agli inni nazionali, alle marce militari, alla musica religiosa, alle canzoni di protesta, ma per i formalisti tali aspetti sono come le piante rampicanti che si sostengono avvolgendosi su qualcosa di esterno, sono quasi parassiti della musica. Ma è così? Forse la musica come “linguaggio”, ammesso che sia possibile usare tale termine, non ha in sé valori, non è portatrice di significati, ma dobbiamo riconoscere anche che la musica esiste solo quando viene suonata in un contesto ed è in tale contesto che assume proprietà che non le appartengono con immediatezza. Merito degli incontri di musica sulle Apuane è quello di aver riannodato alcuni dei fili che talvolta appaiono interrotti o che sono nascosti od occultati, i fili sottili che determinano il rapporto fra cultura e le sue manifestazioni, compresa la produzione musicale, la natura e la politica intesa non nel senso che oggi prevale ma come governo della polis, fili che compaiono nel momento in cui in cui la musica diventa concreta in un contesto, nel momento in cui la dimensione astratta e immateriale della musica si traduce in atti, in materia sonora concreta per orecchie che ascoltano e talvolta anche per occhi che guardano. La musica infatti esiste solo nel contesto, nel momento in cui viene suonata, e non è separabile da tale contesto se non in senso astratto. La musica è inseparabile dalla sua materialità che è suono in un contesto, e il contesto crea in un certo senso anche la musica e le restituisce un’identità che forse è diversa da quella pensata dal suo compositore e che non è solo suono ma anche piacere, perché anch’esso è una componente non secondaria della vita, dimensione etica, dimensione politica in senso lato. Già dal primo incontro, un incontro organizzato a Sant’Anna di Stazzema il 2 giugno, Festa della Repubblica, con la partecipazione del gruppo di musicisti della sezione ANPI del Teatro della Scala di Milano che hanno cantato e suonato pezzi di musica lirica, tale filo è stato portato alla luce e mostrato in tutta la sua evidenza. Credo sia facile leggere in quell’incontro la parola chiave dell’antifascismo così come è declinata dalla Costituzione, una parola che molti considerano residuo di un passato quasi da dimenticare, un orpello o un ostacolo per la società e per la politica attuali identificando l’antifascismo solo come antitesi del fascismo storico. Non è così e quello che sta accadendo nel mondo di oggi ce lo ricorda continuamente, soprattutto se con antifascismo indichiamo sia la necessaria resistenza nei confronti di ogni attentato alle libertà (compresi gli attentati che sono stati portati o sono portati da regimi che non si proclamano fascisti o addirittura si dicono antifascisti) sia il disconoscimento dei doveri di solidarietà sia la lotta per mantenere viva l’aspirazione di eguaglianza intesa come ideale che crea una salutare tensione nei confronti dei conflitti e delle crescenti diseguaglianze oggi presenti nella nostra società. Cantare e suonare pezzi di opere liriche in un determinato contesto non è una semplice operazione di riproduzione né un tradimento della natura della musica ma è una sorta di attività creativa che getta una luce diversa anche su quei pezzi di musica, li trasforma, li riscrive nel momento in cui semplicemente prendono forma in quel contesto. In fondo in che cosa è consistito il patriottismo della musica di Verdi se non nell’essere musica suonata e cantata in un contesto? Quei pezzi composti da Verdi hanno un esplicito contenuto patriottico o hanno acquisito un contesto etico e politico che non è derivato dalla loro struttura interna ma dal contesto in cui hanno preso vita?
Le montagne che ci hanno circondato e si sono offerte al nostro sguardo, le musiche, le voci che hanno messo in moto i nostri timpani e con essi il nostro cervello, le nostre sensazioni, le nostre emozioni, i colori, i cani e i bambini che hanno circondato gioiosamente i musicisti rendendo vivi i luoghi dove si sono svolti gli incontri hanno dato vita attraverso la musica ad una pacifica, umile e discreta manifestazione politica nel senso più ampio della parola, nel senso di partecipazione ad una comunione di valori che debbono essere costantemente riaffermati per poterci riconoscere come comunità, una comunità che trova nella musica un elemento di identità e di condivisione. Il concerto RacConcerto Resistenze in cui Veio Torcigliani e Federico Gerini hanno suonato e cantato musiche di Mozart, di Verdi di Giordano, di Weill\Brecht fino a Nino Rota, a Schoenberg, a P. Gori e alla sua Addio Lugano bella a Modugno con la sua Matarazza, a Morricone con la sua Here’s to you per Sacco e Vanzetti e a canzoni tradizionali quali Bella ciao in una bella versione delle mondine e Dai monti di Sarzana è stato in fondo questo, una pacata e pacifica manifestazione politica grazie alla quale sono stati riaffermati i valori fondamentali dell’essere comunità, una comunità costituita da individui liberi che liberamente condividono la loro appartenenza, una comunità che non schiaccia le persone, demolendone l’identità, come accade anche nelle manifestazioni di massa, ma che si afferma grazie alla valorizzazione delle differenze che riescono a riconoscere ciò che hanno in comune.
Forse nasce da qui l’aria di famiglia, una famiglia dove a fianco della politica non manca allegria, l’ironia, il piacere di ascoltare della musica, di sentirsi a proprio agio nei luoghi che ci circondano, di sentirsi parte di una qualcosa dove diversità ed eguaglianza non costituiscono un’antitesi ma una sintesi. È questo il principale contenuto che ho rintracciato nel concerto del quartetto femminile Euphoria, un concerto tenutosi ai piedi della vetta del monte Folgorito, animato dall’energia aggraziata di quattro vivaci musiciste che hanno spaziato tra i generi musicali, fornendo una loro personale e ironica interpretazione dei pezzi presentati. È stato questo forse dove l’aspetto rivoluzionario della manifestazione ha avuto il ruolo di protagonista, molto più che negli altri concerti, perché è stato il concerto dove maggiormente è stata messa in discussione l’autorità sacrale dei linguaggi musicali tradizionali senza ricorrere ad atti di violenza non tanto fisica ma neppure verbale o musicale. L’accostamento di musiche di Vivaldi e Tchaikovsky, jazz e canzoni popolari ha messo a nudo il fatto che non esiste la Musica ma le musiche e che le musiche si influenzano, si contaminano, si arricchiscono reciprocamente. Credo abbia ragione lo storico della musica Enrico Fubini quando nel suo testo Estetica della musica afferma che stilemi popolari di culture anche lontane hanno influenzato la musica “colta” più degli stilemi e delle tradizioni culturali “alte”. “Il canto sinagogale ebraico” secondo Fubini” ad esempio, ha probabilmente influenzato il canto gregoriano più che la musica greca o romana, le canzoni popolari del Quattro-Cinquecento o le feste popolari teatrali di paesi e villaggi hanno influenzato l’aulico melodramma barocco più di Eschilo ed Euripide”. Per non parlare dell’influenza delle musiche popolari su autori come Smetana, Dvorak, Mahler, Musorgskij, Bartok o Stravinskij. E forse ha ragione Stefano Bollani quando nel suo testo Parliamo di musica se la prende con gli stereotipi che incasellano la musica, a partire dai generi musicali, in favore di una libertà che la musica classica tradizionalmente intesa tende a reprimere e che solo grandi interpreti, come Glenn Gould con Bach, riescono a rendere più duttile, a più una cosa viva e non un oggetto da museo. E forse ha ragione anche quando dice che “ognuno di noi sente la musica in maniera diversa e ci trova cose diverse, e personali, non indotte da altri”. E allora possiamo chiederci se non è altro che una fortunata coincidenza che in un certo luogo e in un certo momento durante l’ascolto di un brano sentiamo cose simili oppure stiamo vivendo un’illusione? Forse, ma mi sembra quasi naturale sentirsi in famiglia durante questi incontri, sentire che siamo in quel luogo non soli, non nell’isolamento che talvolta accompagna la ricerca della bellezza, quando tale ricerca ci confina nel ruolo dello spettatore che è costretto a ricorrere all’invisibile, alle armonie celesti, all’astratto sentimento dell’essere parte di un tutto che portano lo stato d’animo e il pensiero ai vertici dell’astrazione oppure al semplice godimento estetico, di per sé non negativi se non collegati a forme di distacco dalla realtà che è fatta di relazioni, di scambi, di suggerimenti che debbono essere colti per diventare materiale per altri “fatti” che debbono prendere vita.
L’aria di famiglia di cui parlavo è un sentirsi invece all’interno di una sorta di condivisione del “bene comune” che si presenta sotto forma di melodie, di paesaggi, di ambiente come valori da condividere e che ci appartengono non come proprietà privata ma come risorsa pubblica da preservare e da conservare, da riutilizzare come risorsa per la vita e da trasmettere come eredità ai figli, ai nipoti a chi verrà dopo di noi, un “bene comune” che non è neppure proprietà di una singola comunità ma, come ricordato il concerto dell’orchestra multietnica di Arezzo che avrebbe dovuto tenersi a Campocecina ma che è stato spostato nel duomo di Carrara, causa maltempo, un concerto che, pur privo di quell’aria di famiglia e quindi diverso dagli altri perché riconducibile ad un contesto più tradizionale, ha esaltato, per i suoi contenuti musicali, il valore della “scopiazzatura”, dello scambio fra tradizioni diverse, da quella italiana a quella araba a quella ebraica a quella dell’est europeo di altre parti del mondo, come un “bene comune” che appartiene al genere umano, un’universalità che non è insita nel linguaggio musicale in sé un linguaggio universale perché privo di una semantica, ma nel fatto che la musica è come la lingua, la cultura un patrimonio condiviso in quanto fondato su una comune capacità e nello stesso tempo un elemento identitario, quindi un veicolo di scambi e di relazioni nel momento in cui prende forma, si materializza.
massimocec settembre 2022
Leave a reply