Come sono andati due giorni a Bologna con mia figlia dopo gli impegni universitari, tra una mostra che viene da Parigi, un giardino in Normandia pieno di fiori esotici, una domanda sull’arte, una passeggiata sotto i portici dove una vecchia signora pronuncia una frase che è un programma e una sosta in una storica osteria di fuori porta.
Pronto? Sono il curatore di questa rubrica che vi parla da Bologna. Sto dettando al registratore del telefonino circondato dalle ninfee di Monet. Sono arrivate dalla Francia, uscite per la prima volta dal Musée Marmottan Monet di Parigi, fondato nel 1934. “Monet e gli impressionisti”, si intitola così la mostra bolognese, 57 capolavori di Monet e dei maggiori esponenti dell’impressionismo francese: Manet, Renoir, Degas, Corot, Sisley, Caillebotte, Boyudin, Pissarro, Signac e Berthe Morisot, unica donna del gruppo. Doveva inaugurarsi a marzo, ma con la pandemia non fu possibile e le ninfee subirono una brusca ritirata. Un po’ come tutti noi. Le frontiere chiuse non consentirono di rispedire le opere al mittente. La mostra fu rinviata a data da destinarsi. Le ninfee sono rimaste recluse nell’oscurità di un antico palazzo di Bologna fino al 29 agosto, data di apertura della mostra, che si può visitare fino al 14 febbraio. Si entra in piccoli gruppi a distanza di 20 minuti l’uno dall’altro, si girano le varie stanze in sicurezza e con qualche sorpresa luminosa e colorata.
Mia figlia Laura mi fa notare le immagini indecifrabili da vicino, si leggono meglio da lontano. Vicino a un dipinto di Monet le figure sono sfumate su un impasto grumoso di colori. Già quando dipinge la Senna, le stazioni o i treni le forme si sono rarefatte, quasi svanite, sono un’idea, se facciamo un passo indietro le figure indeterminate si precisano, in questo modo Monet crea bellezza. Dal 1883 Monet si stabilisce in campagna, a Giverny, a 70 chilometri da Parigi. E si dedica a costruire il suo giardino artificiale, vagamente giapponese. Singolari sono le diverse raffigurazioni del ponte giapponese che traversa il suo giardino. C’è un cartello nella mostra che ricorda come i suoi fiori lo hanno conquistato: “Il mio giardino è l’opera d’arte più bella che io abbia creato”. Da allora non ha più avuto altro modello. Raffigurerà solo, l’acqua dello stagno, gli alberi che vi affondano le radici e le ninfee che vi ondeggiano. Così fermerà il tempo che fugge. Abolirà il cielo e l’orizzonte, dipingerà solo piccoli e fragili fiori in grandi tele. Accompagnato dalla musica di Debussy mi colpisce la data di composizione di una tela che rappresenta le ninfee: 1914. Semplice riflessione: è scoppiata la guerra e Monet continua a creare le sue opere.
Dopo la visita della mostra mia figlia Laura mi scatta una foto sulla panchina mentre guardo Monet ritratto nel giardino di Giverny. È vecchio, barba lunga, indossa un cappello di paglia. Sembra entrato in uno dei suoi quadri. Quasi cieco guarda la natura che dipingerà e che i nostri occhi guarderanno. E potranno trovare un po’ di consolazione. Mi viene in mente la solita domanda senza risposta: che cos’è l’arte? Non lo so, so che per fortuna c’è stato Monet che ha dipinto incessantemente le ninfee del suo giardino mentre fuori infuriava la guerra. Allora provo a riformulare la domanda: a cosa serve l’arte? Leggo e scopro che, dopo la guerra, nel 1918, Monet vuole donare alla patria vittoriosa un suo monumento, delle enormi Ninfee che ha realizzato nel suo atelier durante il massacro. Ma alle quali continuerà a lavorare fino alla sua fine, nel 1926. L’anno dopo lo Sato francese installerà a Parigi le Ninfee, all’Orangerie, nel giardino delle Tuileries. All’inaugurazione nessuno capì il senso di quel dono. A pensarci però è semplice: accanto alle statue di bronzo e ai memoriali della Grande Guerra che spuntavano in tutte le piazze d’Europa, talvolta funebri e retorici, ecco il fascino della natura che circonda e consola chi la guarda, ecco la meraviglia delle ninfee contro l’orrore della violenza e della distruzione.
Come due comuni turisti passeggiamo sotto i portici. Colgo al volo la frase che una vecchia signora con un soprabito cammello e i capelli argentati, seduta a un bar, dice a una ragazza: “Bisogna stare bene e fare tutto quello che si può fare”. A Bologna stasera c’è una temperatura ideale, la luce penetra sotto la solita nebbiolina, gli alberi hanno indossato un bel soprabito autunnale, le foglie morte nascondono le strisce azzurre dei parcheggi, i colori del crepuscolo sono belli, pittorici. Nelle vie del centro molti bar e ristoranti hanno approntato una pedana in strada, i tavolini sono distanziati, dentro i locali sono stati installate separazioni in plexiglass. Ci incamminiamo verso San Vitale, “Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta”. Eccoci di fronte alla Trattoria da Vito. Quella di Dalla, Morandi e Guccini. È lì dal 1938. Era tanto che ci volevamo andare. “Qui negozio sicuro” è scritto sul vetro della porta d’ingresso. E poi altri cartelli avvisano la gentile clientela del numero massimo di 6 persone a tavolo e che “causa Covid il locale chiude alle 24”. Varchiamo la soglia, ci disinfettiamo le mani con il gel. I tavoli non sono più a due centimetri l’uno dall’altro come un tempo, ma doverosamente distanziati. Be’, però le tagliatelle al ragù erano davvero buone e l’atmosfera conviviale. Dice l’oste con la mascherina: “Qui vendo convivio, non c’è nessuno che mangia e poi va, mangiano e stanno”. Speriamo di tornare presto così, con i tavoli a due centimetri. Ciao Bologna.
odellac ottobre 2020
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