Ho iniziato a fotografare, grazie soprattutto alla passione e agli insegnamenti di Bob Evangelisti, solo dopo che si è affermato il digitale. Non poteva essere altrimenti vista la mia pigrizia e le mia impazienza. Non avrei mai potuto aspettare i tempi per lo sviluppo delle pellicole o darmi da fare per mettere in piedi uno studio per il loro sviluppo.
Spesso mi sono chiesto da dove veniva fuori questo mio interesse. Ho sempre provato una grande curiosità verso le immagini fin da quando ho scoperto, grazie a Chiara Frugoni, la loro enorme capacità di comunicare e custodire cultura. Le ho sempre guardate con un occhio simile a quello di Calvino che diceva nella prefazione alla trilogia de “I nostri antenati”:
“All’origine di ogni storia che ho scritto c’è un’immagine che mi gira per la testa, nata chissà come e che mi porto dietro magari per anni. A poco a poco mi viene da sviluppare questa immagine in una storia con un principio e una fine, e nello stesso tempo mi convinco che essa racchiude qualche significato”
Per il lettore di fotografie può essere così. Per il fotografo il processo può essere inverso: all’origine di ogni immagine ricavata grazie al mezzo meccanico e alla luce che gli oggetti emanano c’è una storia, un’idea che sta cercando la sua strada per materializzarsi. La fotografia, almeno la fotografia che non si limita ad essere la registrazione stereotipata di immagini familiari o di luoghi visitati come turista, è il prodotto di un dialogo tra qualcosa che attrae e chi rimane attratto. L’attrazione però non è una semplice emanazione da parte del soggetto, ma è il prodotto di una messa a fuoco che parte dalla nostra mente, dal bisogno di materializzazione che si determina nel momento in cui nel cervello circolano idee che ancora non hanno assunto connotati precisi.
Questa idea della fotografia non è stata da sempre la mia idea. Quello che mi ha sempre tenuto ad una certa distanza dalle fotografie è la loro natura, o almeno il modo in cui io vedevo le fotografie, la loro difficoltà a essere interpretate come atto creativo in cui si materializzano idee. Per me le fotografie, a differenza dei dipinti, degli affreschi, dei disegni, non erano icone, non erano prodotti autonomi delle nostra mente, erano solo indici, tracce lasciate da altri oggetti, dalla luce emanata da questi oggetti e fissati perché c’è stata la volontà del fotografo che in un certo momento del suo esplorare il mondo con lo sguardo ha deciso di premere il clic. Proprio la loro natura di indici le rende però oggetti ambigui, apparentemente facili da leggere e interpretare e quindi immediatamente associabili ad una semplice funzione riproduttiva. Nel momento in cui ho iniziato a interessarmi della fotografia mi è stato sempre più chiaro che le tracce che le fotografia hanno registrato non sono state lasciate dagli oggetti come quando accade che un animale cammina sulla sabbia, sono state registrate da un fotografo che utilizzando tutto il suo bagaglio di conoscenze, la sua sensibilità estetica, il suo atteggiamento creativo e non solo riproduttivo ha deciso di trasformare quel flusso di luce in immagine.
Studiosi come Roland Barthes arrivano a ipotizzare che la fotografia sia un medium trasparente, attraverso la quale si può vedere direttamente la realtà così come è, ad entrare in contatto diretto con ciò che è stato, con il passato che si rivela direttamente mediante la foto. L’oggetto si impone e la macchina recepisce, registra. Il prodotto della fotografia per Barthes è una sorta di allucinazione, cioè un’immagine che prende il posto della realtà. In Camera Chiara la fotografia diventa il testimone che ciò che è rappresentato è stato.
Questa ipotesi non mi convince. La fotografia è ambigua, diversa dal disegno o dal dipinto perché non siamo completamente padroni del soggetto fotografato, del prodotto dell’atto del fotografare, non la possiamo generare come facciamo con la pittura o il disegno, ma rimane in qualche modo legata ad un atto creativo. Attraverso essa, possiamo solo cercare di catturare le tracce di luce che lasciano gli oggetti, ma scegliamo quali tracce e come registrarle, come comporre l’immagine. Il fotografo è una sorta di cacciatore che insegue la sua preda. Ma la preda non si lascia mai catturare nella sua totalità. Nel carniere del fotografo rimane solo l’ombra dell’oggetto ed è un’ombra che il fotografo stesso ha contribuito a disegnare con le sue scelte. Proprio la natura dell’ombra dell’oggetto fotografato fa sì che il fotografo diventi a sua volta padrone del suo oggetto, della fotografia. L’oggetto della realtà è necessario per ottenere la fotografia e si impone con la sua materialità, il suo carico di fasci di luce, ma è il fotografo che sceglie come riprenderlo, cosa inserire nella foto e cosa tagliare, come far apparire il soggetto tridimensionale sulla carta o sul monitor del computer che hanno una struttura bidimensionale. Oggi addirittura, nell’era digitale, può permettersi di modificare l’oggetto o il contesto o entrambi. L’oggetto, la macchina e il software di fotoritocco diventano strumenti per produrre immagini, anche se oltre certi limiti di ritocco fotografico io non riesco più a chiamare quelle immagini fotografie.
Non amo la caccia ma forse mi affascina lo spirito del cacciatore, lo stesso spirito che anima lo storico, il medico e il detective, tutti quei personaggi che lavorano alla costruzione di saperi indiziari, come li chiama Carlo Ginzburg. Amo infatti i gialli, le storie poliziesche e forse per questo mi interessa la fotografia. La fotografia nei confronti della realtà è una forma di sapere indiziario che però è filtrato, filtrato dal fotografo e dalla sua macchina fotografica. Tutte le fotografie hanno bisogno di essere interpretate e nell’interpretazione si deve lavorare su due piani, la realtà e la mente del fotografo, e tanto maggiore è il bisogno di interpretazione, tanto più interessante è la foto, almeno fino a quando questa rimane entro i limiti della leggibilità. Per comprendere pienamente una foto bisogna conoscere la sua storia e il suo autore. L’oggetto fotografia non è sufficiente. Dietro ogni fotografia c’è una storia e quella storia è parte integrante della fotografia stessa. Perciò, oltre allo scatto e alla stampa, è importante l’operazione dello scarto e della scelta. Non tutte le fotografie scattate sono fotografie. Solo quelle che vengono scelte diventano fotografie. Le fotografie raccolte senza un lavoro di selezione e di scelta non diventano fotografie e rimandano ad altro rispetto alla fotografia, trasformano l’oggetto fotografia in un inutile e inquietante massa anonima di oggetti.
La fotografia intesa nel senso del realismo riproduttivo è infatti qualcosa di inquietante, è la fonte di una immensa allucinazione in cui è facile cadere grazie proprio alla facilità con cui si scattano le fotografie. Sempre Calvino ne “L’avventura di un fotografo” sottolinea l’illusione di massa che si nasconde dietro la fotografia, l’illusione di poter prendere possesso attraverso essa del tempo trascorso, di poter portar fuori gli oggetti dal fluire del tempo, di renderli più reali perché resi in qualche modo duraturi, estratti dall’azione distruttiva del tempo e dalle limitazioni dello spazio. Il rischio è quello di sostituire la realtà all’immagine, di trasformare la realtà in una serie di immagini, di cadere nell’illusione che solo ciò che è fotografato è reale, di riuscire a vedere la realtà solo se essa è soggetto di un’immagine. È possibile che oggi ciò accada immersi come siamo in um mondo di immagini aggressive, che cercano di imporsi, di diventare lo schermo attraverso il quale guardare la realtà. Ma ciò può accadere solo perché il rapporto tra immagine e realtà è un rapporto di scambio. Come diceva Umberto Eco nel maggio del 1977 sull’Espresso, “…il vissuto [viene] filtrato (amore, paura o speranza) attraverso immagini <<già viste>>. Lascio ai moralisti il deprecare questo modo di vivere per interposta comunicazione. C’è solo da ricordare che l’umanità non ha mai fatto altro, e prima di Nadar e dei Lumière ha usato altre imamgini, tratte dai bassorilievi pagani o dalle miniature dell’Apocalisse.”. Si deve aggiungere a mio parere che la natura di questo filtro è duplice. Da un lato l’immagine filtra la realtà, le dà un ordine e un senso, dall’altro la natura dell’immagine determina la realtà del filtro perché produciamo sempre nuove immagini e alcune di queste divantono icone, deventano simboli attraverso i quali guardiamo la realtà. Concetti e immagini funzionano come organizzatori cognitivi e visivi. Senza di essi la realtà sarebbe un magama fluido e inafferrabile di stimoli e la nevrosi fotografica del realismo riproduttivo lascia inalterato questo magma informe. I concetti e le immagini ci consentono di estrarre da questo magma segmenti che prendono senso e danno ordine alla nostra esistenza, che si trasformano in conoscenza, identità, storia, scienza, arte.
Quello che viene descritto da Calvino è la rottura del dialogo, dello scambio. L’immagine diventa allucinazione, il sostituto della realtà. Credo che la consapevolezza della natura della fotografia come oggetto autonomo a sé stante, non come specchio della realtà, possa ridurre la pericolosità di questo inquietante rischio.
La fotografia non è il sostituto della realtà, degli oggetti rappresentati, ma un nuovo oggetto con proprie caratteristiche fisiche, estetiche e culturali. È un indice, una traccia ma non sostituisce l’oggetto. Gli indici servono per costruire storie, per creare significati, per elaborare ipotesi, per produrre senso, per scoprire verità, ma rimangono sempre qualcosa di distinto dall’oggetto che li ha prodotti. E rimane un autore che ha scattato fotografie, e ha scattato fotografie per cercare di instaurare un certo rapporto con la realtà, con il mondo che lo circonda, per cercare di capirlo, di andare oltre la superficie che la semplice visione ad occhio nudo gli mette di fronte quotidianamente.
Il realismo fotografico è il frutto di un grande inganno. Una fotografia è sempre un’immagine a doppia faccia, da un lato il soggetto fotografato e dall’altro il soggetto che fotografa, così come dice il regista Wim Wenders. E tale oggetto si presenta sotto due aspetti, e qui Barthes ha dato un contributo importante alla comprensione della natura della fotografia nel suo testo “Camera chiara”, anche se tali aspetti riguardano soprattutto il lettore di fotografie e poco l’autore: il punctum e lo studium.
Lo studium è legato al rapporto tra foto e conoscenza, tra foto e cultura. È un rapporto distaccato con la foto, un rapporto di tipo intellettuale. La foto è oggetto di interesse in quanto contenitore di scelte che riguardano gli aspetti formali, i colori, l’intensità delle luci, le relazioni con il contesto culturale, con altre foto. La fotografia dal punto di vista dello studium è un oggetto culturale. Il punctum invece è ciò che colpisce la sfera emotiva, ciò che porta ad innamorarsi di una fotografia, ad odiarla, a viverla come oggetto personale. Il punctum non è il prodotto delle scelte del fotografo ma è ciò che si determina in seguito all’incontro tra quelle scelte e uno spettatore. È un contenuto potenziale della foto che si attiva solo se incontra un certo lettore. Non tutte le foto sono in grado di innescare reazioni emotive, non tutte sono portatrici di un punctum almeno fino a quando non un incontrano un lettore che ne rimane colpito.
La teoria del punctum però va distinta dalla natura coercitiva che un certo uso dell’immagine consente nei confronti delle emozioni e delle sensazioni. Molte foto sono studiate, predisposte per produrre determinati effetti emotivi, determinate sensazioni. La pubblicità vive di questo. Ma non tutti gli effetti sono da considerarsi simili al punctum. Credo che quando si parla del punctum si intenda indicare una dimensione soggettiva, profondamente personale della sfera emotiva, della memoria profonda, interiorizzata, non quella superficiale e sterotipata dell’effetto programmato dalla pubblicità. Il punctum è un elemento casuale, personale che emerge non perché una regia l’ha collocato lì, ma perché ha incontrato una persona con il suo bagaglio di ricordi, con la sua enciclopedia culturale e visiva, con la sua carica emotiva. Barthes usa la presenza del punctum come dimostrazione della natura realistica della fotografia e non della sua natura di prodotto di una regia. L’obiettivo non può non cogliere tutto quello che cade nel suo campo e perciò il fotografo è succube dell’oggetto fotografato, tanto che la fotografia può contenere aspetti che il fotografo non aveva previsto o visto. Siamo di fronte a due impostazioni diametralmente opposte. Io penso invece che la fotografia giochi soprattutto sull’equilibrio tra queste due aspetti, sull’inconscio ottico e sulla regia scenica. Determinante è la natura di ombra dell’oggetto della fotografia, ombra della realtà creata dal fotografo. L’ombra permette di andare oltre la fotografia e di vedere ciò che nella fotografia non c’è, di aprire le porte dell’immaginazione vincolata, il cui motore è l’ambiguità della rappresentazione fotografica prodotta attraberso le scelte del fotografo. Forse la risposta alla tesi di Barthes si può trovare nelle parole di Richard Avedon “Tutte le foto sono esatte, nessuna è vera”.
Anche questi sono due motivi che forse possono contribuire a dare una risposta alla mia domanda iniziale. Da dove nasce la mia passione per la fotografia. Dalla natura particolare dell’immagine fotografica, dalla sua natura culturale e dal suo essere un possibile strumento per la sollecitazione delle emozioni sotto la guida impalpabile della ragione e della conoscenza, una sorta di materializzazione di quella spinoziana geometria delle passioni realizzata attraverso un uso non razioide della ragione, per usare un termine caro a uno scrittore come Musil, di quell’equilibrio dinamico della personalità e della cultura, delle passioni e della ragione di cui oggi abbiamo tanto bisogno.
“La nascita della fotografia, come tutta la sua storia, si fonda su un equivoco strano che ha a che fare con la sua doppia natura di arte meccanica: quello di essere uno strumento preciso e infallibile come una scienza, e insieme inesatto e falso come l’arte. La fotografia, in altre parole, incarna la forma ibrida di un’ “arte esatta”, e insieme di una “scienza artistica”, che non ha equivalenti nella storia del pensiero occidentale” F. Alinovi in Alinovi F. Marra C. Illusione o rivelazione?, Bologna, 1981
febbraio 2012 massimocec
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