Ho trovato per caso queste fotografie di mia madre. È stata una scoperta. Il volto di quella bambina è il volto di mio fratello da piccolo. I due volti li ho visti per la prima volta uno accanto all’altro. Mio zio è irriconoscibile, sembra quasi un brigante meridionale sfuggito alla cattura con uno sguardo torvo.
Non posso riconoscere mia madre nelle foto perché io non c’ero, non l’ho mai vista così. Posso però tentare di conoscerla come il soggetto che in quelle foto appare a me per la prima volta, diverso da quello che io ho conosciuto. La memoria inizia a funzionare per associazioni e non per rievocazioni.
La prima foto richiama alla mente le mie vacanze passate da mia nonna, la madre di mia madre, la casa in cui mia madre è cresciuta. Era una casa cantoniera lungo la ferrovia Pisa Cecina oggi dismessa. La casa cantoniera non esiste più. Non c’erano né acqua corrente né energia elettrica. Solo una piccola radio che funzionava forse con le pile che serviva per ascoltare il giornale radio e per il segnale orario, lumi a petrolio, un gigantesco camino, un grande tavolo e accanto a questa cucina una sola stanza che era una sorta di magazzino con una madia di cui ricordo l’odore quando si riempiva di pane appena cotto o di pasta che aspettava di lievitare. Quello che ricordo con maggior evidenza è la libertà, la libertà di muoversi per i campi, per l’orto recintato da una palizzata di saggina che diventava un fortino assediato, di andare nel pollaio sotto la casa nel quale si accedeva da un pertugio, sembrava una grotta. Spesso mi mandavano lì a prendere le uova. Mia madre mi raccontava che in quel pollaio mia nonna aveva ospitato durante la guerra militari americani feriti.
Mi ricordo ancora mia nonna che al mattino andava a spigolare dopo la mietitura e ancora mia nonna che andava in paese con la bicicletta per una strada sterrata che quando pioveva diventata un torrente; tornava a piedi conducendo a mano la bicicletta con appese al manubrio le sporte piene di oggetti e alimenti che dovevano essere sufficienti per giorni. Ancora mia nonna che andava a cuocere il pane nel forno di una vicina e poi lo riponeva nella madia; durava quel pane.
Un altro ricordo è legato all’attesa del passaggio dell’ultimo treno la sera prima di andare a letto, la littorina da Cecina. E poi la locomotiva a vapore che periodicamente veniva a riempire delle giare d’acqua che stavano nel cortile sotto la pergola. Si fermava per un certo tempo davanti a casa continuando a sbuffare come se avesse fretta di ripartire, da una cisterna svuotava l’acqua nella giara e poi riprendeva il suo lento viaggio per la cantoniera successiva. E io lì a guardare tutte queste operazioni affascinato dalla locomotiva che impaziente continuava a fumare e a respirare.
La littorina
Ancora l’attraversamento dei ponti della ferrovia sui fossi passando sulle traversine per evitare tutto il tragitto per andare al ponte sulla statale, la fuga verso l’ovile vuoto, gli stagni con le stampe dei cacciatori. La paura dell’arrivo della littorina che era una componente fondamentale di quelle vacanze. Un’attrazione e un pericolo da cui guardarsi. Grazie ai miei ricordi posso immaginare mia madre e mio zio intenti a giocare nei fossi con lo stesso piacere per la libertà.
Nutrivo una grande ammirazione per mio zio. Mi batteva a tutti i giochi, carte, dama, shanghai, ma lo faceva senza farlo pesare. Ma soprattutto era il carabiniere a cavallo ritratto mentre saltava un ostacolo in una grande foto che mia nonna conservava nella stanza del piano terra che era contemporaneamente una grande cucina, un salotto, un magazzino. Aveva fatto la campagna di Russia ed era tornato vivo quando mia madre e mia nonna lo avevano dato per disperso. Non ricordo da parte sua mai un rimprovero, solo la gioia ogni volta che lo vedevo arrivare con il suo motorino che mi sembrava una moto enorme e potente.
Guardando la foto si capisce perché i due bambini sono così poco disponibili per l’obiettivo. Penso che mia nonna, approfittando della presenza di un fotografo per chissà quale evento, avesse chiamato mia madre mentre con suo fratello stava giocando nei fossi. Se si guardano le gambe si vedono le tracce lasciate da quei giochi e si capiscono i volti, i volti di due bambini liberi cui per un istante viene chiesto di rinunciare alla loro libertà. La foto è unica e quindi la presenza del fotografo deve esser stato un caso. Nella foto vedo questo, il volto quasi impertinente di mia madre, come se fosse stata costretta per fare quella foto a interrompere qualcosa di molto più attraente con la complicità e la condivisione di stato d’animo di mio zio.
Nelle altre due foto vedo ancora mia madre ma più grande, una ragazzina e ancora una sconosciuta. Nel suo volto però inizio a riconoscere alcuni tratti della donna che ho conosciuto, che mi ha cresciuto, mi ha sgridato, forse qualche volta anche preso a scapaccioni. Riconosco questi tratti ma vedo anche una perdita, la perdita della risolutezza della prima foto. Non aveva un carattere facile. Se la prendeva per niente, era un po’ risentita con la vita. Mio nonno, a suo dire, l’aveva costretta ad una gioventù vissuta quasi in esilio in quella casa cantoniera, negandole il diritto di studiare e di frequentare le amiche e anche le cugine. La casa che forse era la casa della libertà nell’infanzia era diventata quasi una prigione per la ragazzina. Mio nonno era un misantropo, voleva vivere lontano il più possibile dalle persone. Parlava pochissimo e a monosillabi. Lo rivedo seduto al camino con la sua pipa sempre in bocca, in silenzio a scrutare il fuoco senza poter capire a cosa stesse pensando. Immagino lo scontro che deve esserci stato tra mia madre e quest’uomo. E mia nonna? Forse era un’altra vittima che tentava di mediare. Amava viaggiare, parlare, stare con noi nipoti e in vecchiaia c’è anche riuscita. Ma non c’è niente di tutto ciò nelle due foto.
Nella seconda foto mia madre sembra serena in compagnia di un’altra ragazza che invece sembra impacciata. Come si concilia ciò con quello che mia madre mi ha sempre raccontato e che io ho visto? Nella foto sembra quasi bella e io non l’ho mai vista sotto questo aspetto. L’ho vista raramente così quando l’ho conosciuta. Le preoccupazioni economiche, la difficoltà delle relazioni con i parenti di mio padre che nel periodo delle foto forse non erano ancora presenti l’hanno cambiata? Le due foto ingannano? Mia madre sta posando e sta quindi ingannando l’obiettivo per ingannare il futuro osservatore? Il dubbio si rafforza in presenza della terza foto in cui il sorriso di mia madre è associato ad una posa che sembra studiata. Nella terza foto mia madre sembra ancora più accondiscendente nei confronti dell’obiettivo, forse perché cerca di apparire in un modo diverso da quello che era o forse perché coinvolta in uno stato d’animo che l’aveva presa quando ancora si aspettava chissà cosa dalla vita. Noto anche un particolare che mi intenerisce, i sandali con i calzini che richiamano un altro modo di vivere.
Nelle ultime due fotografie inizio a riconoscere qualcosa. Nella penultima non riconosco né mia madre né me stesso, il bambino in braccio a mia madre, naturalmente, ma i luoghi, l’argine sul fiume Arno sotto il quale c’era la casa dove sono nato, l’erba arida dell’estate che ricopriva quell’argine. Nell’ultima infine riconosco mia madre, come l’ho conosciuta negli anni della mia giovinezza, vi rivedo il suo amore quasi ossessivo per i fiori, il corpo irrobustito dall’età, la porta della casa che per decenni è stata la porta sul nostro giardino. Senza volerlo duplica la foto di molti anni prima, quasi come se una sorta di cerchio si fosse chiuso e un nuovo ciclo dovesse ricominciare. Un po’ è stato così. Mia madre, in compagnia di mio padre, dopo il suo pensionamento, ha iniziato a viaggiare per l’Europa, ad occuparsi delle cose che più le piacevano, dei suoi fiori, della casa, a invecchiare. Forse è iniziata un’altra storia o si è riavviato il ciclo eterno delle generazioni?
Mia moglie quando vede le foto della sua gioventù dice che quella donna ritratta sul quel cartoncino non esiste più. Le foto ingannano perché ci fanno vedere ciò che non c’è più come se fosse ancora presente. Non c’è un legame che unisce il presente e il passato. È veramente l’inganno ciò che le vecchie fotografie di mia madre portano con sé? Mostrano una donna che non è mai stata così o che è stata così lo è stata in un tempo lontano, trasformato in un tempo irreale dalla condizione di gioventù, un tempo irrecuperabile, da dimenticare?
Io vi vedo piuttosto un’esca, l’esca per i ricordi, l’esca per l’immaginazione, l’esca per non far morire chi purtroppo non c’è più, per tentare di recuperare quel filo che unisce il passato al presente. Grazie a queste foto posso immaginare mio zio e mia madre da piccoli immersi negli stessi giochi che io ho praticato tanti anni dopo negli stessi luoghi. La sensazione di libertà che solo da piccoli si può vivere. Vi vedo anche una ragazzina che sogna, forse soffre, diversa comunque dalla donna che ho conosciuto. Vedo una storia che può essere raccontata.
Mi riesce difficile conciliare il mio modo di leggere le foto di mia madre con quanto afferma Roland Barthes in La camera chiara quando sostiene che “La fotografia non dice ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente ciò che è stato”, “La fotografia , invece, e indifferente a qualsiasi espediente: essa non inventa essa e l’autentificazione stessa”. Certo la fotografia è, per un aspetto della sua identità, un indice, e come tale è portatrice di certezza, ciò che è contenuto nell’indice è sicuramente stato (a meno che qualcuno non abbia barato). Ma ciò che è contenuto nella fotografia è per sua natura una traccia e perciò e di per sé ambiguo e limitato. L’osservatore è chiamato a cooperare per trasformare la traccia in altro, in un’indicazione di senso. Senza tale cooperazione la fotografia rimane un oggetto tra i tanti. E tale cooperazione coinvolge sia il soggetto della foto che il fotografo, oltre naturalmente all’osservatore. Le fotografie di mia madre, scattate da un qualche fotografo sono fotografie solo nel momento in cui io o qualcun altro le osserviamo con un intento. Il cartoncino diventa rappresentazione. Il passato, ciò che è stato e perciò ciò che è morto viene riattualizzato. Rivive. È in grado persino, con la collaborazione di un osservatore interessato, di trasformarsi in narrazione, in storia.
Più coinvolgente mi sembra il discorso invece sull’aura, come Barthes la definisce, sempre in La camera chiara “supplemento intrattabile dell’identità”, ciò che dà al volto “un valore di vita”. È forse questo che cerco nelle foto di mia madre, “l’ombra luminosa che accompagna il corpo” che la foto deve riuscire a palesare, e se non ci riesce “allora il corpo va avanti senz’ombra, e una volta che quest’ombra sia stata separata dal corpo, come nel mito della Donna senza Ombra, non resta altro che un corpo sterile.” Ed è condivisibile l’angoscia di Barthes quando afferma che per la maggior parte delle persone il palesamento dell’ombra è dovuto al caso. È forse questa casualità che sto cercando di ridurre per mia madre? Ecco che allora mi accorgo che Barthes ha in mente un’altra cosa quando parla della fotografia e l’avvicina alla follia, ha in mente la sua capacità di pungere, di toccare le corde della sensibilità e delle emozioni. Quell'”È stato” di Barthes non è un dato di fatto, uno di quei fatti tanto cari al celebre Thomas Gradgrind dei Tempi difficili di Dickens o dei fatti della descrizione iniziale dell’Uomo senza qualità di Musil: “Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isotere si comportavano a dovere. La temperatura dell’aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l’oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la tensione massima, e l’umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantunque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913.”. È l'”È stato” che scatena la “follia” delle emozioni, dei ricordi, se “il suo realismo” sollecita “il risveglio dell’intrattabile realtà”.
Non ho foto di mio padre da giovane. Ho scelto questa fotografia con mo fratello avvinghiato al dito della sua grossa e callosa mano perché mi sembrava rappresentasse la caratteristica più marcata della sua personalità: la dignità. Mio padre era un operaio, di famiglia povera e con famiglia povera, ma ha sempre vissuto la sua povertà con dignità. Ci teneva a che noi studiassimo e ha fatto di tutto per consentircelo. Ci diceva “Non mi importa che cosa decidete di fare, importante è che studiate. Non dovete fare la fine che ho fatto io, ho lavorato tutta la vita per prendermi la silicosi”. Era un comunista convinto e attivista. Da piccolo mi ricordo diffondeva l’Unità e mi portava in giro per le campagne sangiulianesi sulla canna della bicicletta consegnando famiglia per famiglia il giornale. Era stalinista perché credeva che veramente nell’Unione Sovietica si fosse realizzato il socialismo come lui lo intendeva, una società ugualitaria che dava risposte concrete ai bisogni dei cittadini. Quando qualcuno iniziò a fargli notare che anche là c’erano profonde diseguaglianze, che molte persone erano state deportate, uccise, taceva. Forse pensava anche che un po’ di autoritarismo era sopportabile per raggiungere l’obiettivo di una società più giusta e che il mondo occidentale in fondo faceva altrettanto in modo diverso. Quando Achille Occhetto liquidò il PCI, mio padre non si interessò più di politica.
Passava molto tempo nell’orto. Non so se era una sua passione o lo faceva per integrare il suo salario con i prodotti dell’orto, soprattutto d’estate. So che era molto faticoso. Era un tifoso del Pisa e mi portava allo stadio, ma né io né mio fratello l’abbiamo seguito in questo passione.
Tutti dicevano di lui che “è buono come il pane” e in effetti lo era. Difficilmente riusciva a dire di no quando qualcuno gli chideva il suo aiuto. Subito dopo la guerra entrò nella polizia ausiliaria ma decise poi di abbondonarla perché non era tagliato per quel lavoro. Lo utilizzavano per accompagnare la polizia militare americana ad arrestare soldati ubriachi nei bar, prostitute, poveracci che si davano da fare per sfamarsi, “borsari neri” e lui non riusciva a usare il manganello contro tutta questa gente. Preferì andare in fabbrica, alla Saint Gobain, una fabbrica francese che produceva vetro a Pisa, a prendere il posto di mio nonno, morto sotto le cannonate americane quando il fronte si fermò lungo l’Arno, a faticare davanti ai forni. In compenso nei periodi delle lotte operaie fu più volte bastonato dalla polizia.
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